mercoledì 28 dicembre 2016

apprentice in death

New York, 2061.
I colpi arrivano veloci, silenziosi, con un'accuratezza mortale. In pochi secondi, tre persone vengono uccise sulla pista di pattinaggio di Central Park. Le vittime sono una giovane pattinatrice, un medico e un insegnante: tre vittime assolutamente casuali.

Il tenente Eve Dallas ha avuto a che fare con numerosi assassini negli anni passati nel dipartimento di polizia, ma nessuno come questo. Dopo aver verificato i video della sicurezza, diventa chiaro che le vittime sono state uccise da un cecchino con un fucile laser tattico, che poteva essere distantissimo al momento di premere il grilletto.
I luoghi da cui l'assassino può aver sparato sono molteplici, ma la lista delle persone con quella particolare abilità è però limitata: polizia, militari, killer professionisti.

Roarke, milionario marito di Eve, ha illimitate risorse a sua disposizione, e quando un software da lui creato porta Eve a individuare la location del cecchino, emerge un fatto sorprendente: il killer non era solo. C'erano due persone sul luogo da cui sono partiti gli spari, un uomo e una persona più giovane, un teenager. Qualcuno che segue le orme di un esperto nell'arte di uccidere. I due hanno un programma da seguire: Central Park è stato soltanto un riscaldamento.

Emerge subito che si tratta di padre e figlia: un ex militare ed ex poliziotto delle forze speciali, e la figlia quindicenne. Mentre un altro attacco del cecchino scuote la città nel suo cuore, a Times Square, Eve si rende conto che, sebbene tutti veniamo modellati anche dalle persone che ci circondano, ci sono anche coloro che nascono malvagi.
Il cecchino non è infatti l'uomo, finito nel gorgo delle droghe in seguito a un incidente in cui la sua seconda moglie perse la vita (e alcune delle vittime sono infatti collegate a quell'incidente), bensì la ragazzina, una vera e propria anima nera, in grado di agire anche da sola, e, anzi, con una sua lista personale di bersagli da eliminare (inclusi madre, patrigno e fratellino).

In questo titolo non c'è una vera e propria indagine per scoprire gli assassini di turno, poiché il tenente Dallas risale alla loro identità abbastanza presto. C'è quindi la caccia per prenderli, prima il padre e poi, in maniera più complicata, la ragazza. Roarke dà sempre una mano a Eve, e soprattutto alla divisione EDD, tanto che mi chiedo quando trovi mai il tempo di gestire le sue ramificate Roarke Industries. E' presente un momento di grande apprensione per Summerset, che era andato al Madison Square Garden per un concerto proprio quando la ragazzina killer decide di far fuori una ventina di persone innocenti anche là. Roarke e Eve si precipitano sulla scena col cuore in gola, ma per fortuna l'uomo non è stato ferito.

Mah, il libro non mi è dispiaciuto, però mi piacerebbe che ci fosse un pochino più di movimento nelle relazioni fra i personaggi. Ad esempio, anche stavolta, nonostante Eve fosse preoccupata per Summerset, non si è verificato alcun avvicinamento esplicito fra i due: ma dopo oltre due anni che vivi lì, che sai benissimo che quell'uomo è come se fosse il padre adottivo di tuo marito, e che ormai lo conosci, ecchediamine Eve, dacci un taglio a questa mini-guerra che portate avanti: mi sarei anche un po' stufata... L'unico cambiamento che si è avuto riguarda l'arredamento dell'ufficio casalingo di Eve, e ho paura che dovremo accontentarci di questa concessione da parte della Robb.

mercoledì 14 dicembre 2016

snowdrift

Nell'autunno 2016 la raccolta di novelle di Georgette Heyer "Pistols for two" (originariamente pubblicato nel 1960) è uscita con un nuovo titolo "Snowdrift and other stories" e con tre novelle giovanili, pubblicate insieme in forma di libro per la prima volta.

Due di queste tre storie vennero scritte per il Woman’s Journal negli anni Trenta, e la terza - Pursuit - per un'antologia della Croce Rossa.

Questioni d’onore, libertini e furfanti, affari di cuore che coinvolgono ereditiere, giovani fanciulle e scapoli d’oro; sentimento, intrighi, fughe e duelli all’alba: tutta la galanteria, le malvagità e l’eleganza di un’epoca – quella della Reggenza inglese - che la Heyer ha saputo far propria in maniera magistrale.

Di seguito una sintesi delle tre novelle nuove. Se vi interessano le altre undici, guardate il mio vecchio post.

Snowdrift and other stories

Pursuit - Due giovani scappano per andare a sposarsi a Gretna Green. Sulle loro tracce si getta il tutore della ragazza, accompagnato dalla governante, che però vede di buon occhio l'unione fra i due ragazzi. Finirà che la coppia più giovane rimarrà insieme, e per di più nascerà un'imprevedibile coppia fra i due più anziani.

Runaway Match - Una giovane ochetta diciottenne fugge insieme al suo altrettanto giovane amico d'infanzia. La coppia è intenzionata a sposarsi a Gretna Green, per evitare alla ragazza un matrimonio impostole dalla famiglia. In una locanda i due vengono raggiunti da un conte trentenne, che in pochissimo tempo fornisce al ragazzo tutta l'avventura che stava cercando - grazie al suo primo duello - e trasforma del tutto le intenzioni di fuga della ragazza.

Incident On Bath Road - Un giovane conte, ricco e un po' annoiato, soccorre lungo la strada per Bath un giovanotto appena rimasto coinvolto in un incidente alla corriera su cui stava viaggiando. Il conte si offre di accompagnarlo e i due si fermano in una locanda. Ma il giovanotto in questione è in realtà una fanciulla en travesti, che sta scappando di casa - e dal fratello - per evitare di dover sposare un uomo che non le piace.

sabato 3 dicembre 2016

dentro soffia il vento

In un avvallamento tra due montagne della Val d’Aosta, al tempo della Grande Guerra, sorge il borgo di Saint Rhémy: un piccolo gruppo di case affastellate le une sulle altre, in mezzo alle quali spunta uno sparuto campanile.

Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano guizzare come lingue di fuoco in un camino.

Come faceva sua madre quand’era ancora in vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione, insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni » approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi.

Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce, l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato.

Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi ed era diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul cappello, e non era più tornato. Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia.

Ritornando su un tema caro alla letteratura di ogni tempo – l’amore che dissolve il rapporto tra una comunità e il suo capro espiatorio – Francesca Diotallevi costruisce un romanzo che sorprende per la maturità della scrittura e la solidità della trama, un’opera che annuncia un nuovo talento della narrativa italiana.

venerdì 2 dicembre 2016

alberto angela a giovedìscienza


La Gioconda non è solo un quadro da ammirare. In realtà è un viaggio nella mente e nelle emozioni di Leonardo. È una porta che si spalanca su un luogo e su un’epoca indimenticabili: Firenze (ma anche Milano, Roma, Mantova, Urbino...) e il Rinascimento.
Sarà Monna Lisa stessa a “raccontarci” Leonardo, il genio che l’ha potuta pensare e realizzare, e che ci svelerà i segreti delle incredibili macchine e invenzioni (un palombaro, un paracadute, un robot!).
Ma che cosa sappiamo di lei? Chi è davvero questa donna misteriosa? Partendo da ogni dettaglio del quadro e ricostruendo le circostanze in cui Leonardo lo dipinse, Alberto Angela ci accompagna a scoprire che il volto della Gioconda non ha ciglia né sopracciglia, o che il segreto del paesaggio va ricercato nel nuovo tipo di prospettiva “aerea” ideato da Leonardo.


Ieri sera - lunedì 1 dicembre - Alberto Angela ha incontrato il pubblico torinese, nell'ambito di GiovedìScienza.
Il Teatro Colosseo è completamente pieno (1500 posti fra platea e galleria) già mezz'ora prima dell'orario previsto per l'inizio dell'incontro. Per fortuna io e la mia collega riusciamo a trovare due poltrone, anche se siamo in alto, a circa metà galleria.

Alberto Angela a Giovediscienza

La conferenza comincia verso le 17.55, con una breve introduzione di Piero Bianucci.
Nel preambolo Alberto Angela ricorda subito come il palco del Colosseo sia stato quello dove tenne la sua prima conferenza pubblica, sempre con Bianucci, molti anni fa. All'epoca avere la luce dei riflettori direttamente puntata in faccia equivaleva ad avere un senso di tranquillità, perché non si rendeva ben conto di avere davanti a sé tutto quel pubblico. Alberto chiede se per chi sta riprendendo via streaming l'evento è un problema se lui si alzasse dalla poltroncina e si mettesse a camminare sul palco. Così fa.
Alberto Angela Gli occhi della Gioconda

La Gioconda è stata una delle icone del Novecento. Nel suo ultimo libro “Gli occhi della Gioconda” Angela propone una delle ipotesi dello studioso Carlo Pedretti, ovvero che la Gioconda che noi conosciamo non sia Monna Lisa bensì un'altra donna. E grazie a questo dibattito sulla Gioconda, il libro ci permette di fare un viaggio nella mente e nell'epoca di Leonardo da Vinci.

A metà '500 il Vasari ne “Le Vite” intendeva riassumere il Rinascimento, un'epoca già conclusa ed irripetibile. In questo testo Vasari parla del ritratto di tale Lisa Gherardini, commissionato a Leonardo dal marito, il mercante Mastro Giocondo. Già potrebbe risultare strano che Leonardo facesse un quadro per un mercante, e non per un principe o un più alto personaggio. Ancor più strano pensare che la dama in questione doveva avere circa 15 anni, mentre il ritratto che noi oggi conosciamo non sembra affatto quello di una quindicenne.

Angela racconta poi che la Firenze del '500 è una città in decadenza. Leonardo realizza la Gioconda in questo contesto, volendo continuare la tradizione delle grandi opere.
Racconta anche dei cartoni preparatori da lui realizzati per la Battaglia di Anghiari, per i quali utilizzò la tecnica dell'encausto (si mescolavano pigmenti e cera, poi avvicinando dei bracieri caldi, la cera sgusciava fuori dai tratti, e usando un apposito panno il tutto diventava simile a marmo). Purtroppo il procedimento non funzionò bene, e il caldo dei bracieri rovinò tutta l'opera. Successivamente fu proprio Vasari a ricoprire la parete con dei nuovi affreschi. Che ne fu del lavoro di Leonardo? Venne coperto e distrutto, oppure il Vasari lo nascose con una sorta di intercapedine? Non si sa.

Alberto Angela a Giovediscienza

Gli occhi della Gioconda colpiscono in modo particolare, privi di ciglia e di sopracciglia, così come la bocca, risultato di una serie di passaggi semitrasparenti che rendono indefiniti i lineamenti. Leonardo usava una sua tecnica di sfumato, con strati successivi sul tratto originale. Inoltre pare che avesse una serie di taccuini su cui riportava tipologie di parti del volto, ad esempio aveva individuato 21 tipologie di nasi diversi, ed era in grado di disegnare i volti usando questi vari elementi anche a distanza di tempo. Ricordiamoci di questa cosa perché tornerà utile nelle conclusioni finali.
Leonardo fece anche approfonditi studi di fisiognomica, e dipingeva un po' come se fosse un fotografo.

A questo punto Angela passa in rassegna diversi quadri leonardeschi, mostrandone le slides. Sia nel “Ritratto di Ginevra de' Benci” sia nella “Dama con l'ermellino” Leonardo dava movimento al corpo, nel ritratto: la figura era spesso riprodotta di tre quarti.
Ci mostra poi il disegno preparatorio per il ritratto (di profilo) di Isabella d'Este, che insisteva con lui per farsi ritrarre. In realtà non è chiaro se un successivo quadro a colori sia mai stato realizzato.
Nella Belle Ferronière, anch'essa conservata al Louvre, il vestito è dello stesso stile di quello della Gioconda, con le maniche con larghi squarci da cui uscivano gli sbuffi della camicia. Le pieghe del vestito erano un segno della qualità dell'abito.
Angela continua mostrandoci il celeberrimo autoritratto a sanguigna di Leonardo, conservato proprio alla Biblioteca Reale di Torino.

Raffaello fu folgorato dalla Gioconda quando la vide, tanto da realizzare un quadro simile, come posa ed elementi. Copie molto simili della Gioconda, di altri autori, sono tuttora conservate al Prado e a San Pietroburgo. E ce n'è addirittura una, che ritrae effettivamente una ragazza giovane, che potrebbe essere una quindicenne, con fondale del tutto diverso (e che si trova attualmente in un caveau a Singapore).

Alberto Angela a Giovediscienza

Nel capitolo 4, “Sulle tracce di Leonardo”, Angela ci racconta come Leonardo fosse un figlio illegittimo. Il nonno paterno era notaio, e, contrario alla relazione del figlio con una contadina, trafficò per farla sposare a un contadino, e non al suo prezioso figlio. Il piccolo Leonardo visse un po' con il nonno paterno e un po' con la madre. A un certo punto torna il suo vero padre e a Leonardo venne impartita un'istruzione a Firenze. Il ragazzino faceva dei bellissimi disegni, e il padre si convinse a mandarlo a bottega dal Verrocchio (insieme a personaggi quali Botticelli, Perugino, Ghirlandaio). Ben presto l'allievo superò il maestro.
Una curiosità: sembra che il David della bottega del Verrocchio ritraesse Leonardo da giovane.

Anche della Vergine delle Rocce ne esistono due versioni, fatte entrambi da Leonardo (una conservata al Louvre e una alla National Gallery di Londra). Questo perché i frati che l'avevano commissionata erano disposti soltanto a pagare le spese vive dei pigmenti etc.. e non a pagarla a prezzo di mercato. Per cui Leonardo vendette il primo quadro a chi glielo pagava di più, e poi ne realizzò una seconda versione, senza perderci troppo tempo, per i monaci.

Le mani della Gioconda sono mani che parlano. Anch'esse sono sfumate, senza nervature in rilievo. Leonardo aveva compiuto approfonditi studi di anatomia, e ne è rimasta testimonianza nei suoi disegni.

Nel paesaggio che si intravede sullo sfondo della Gioconda vi sono una strada, un fiume e un ponte a più arcate. Potrebbe trattarsi del Ponte Buriano, sulla Cassia nei pressi di Arezzo, però le strutture rocciose riprodotte non combaciano con quel luogo, sembrano invece le gole di Prat'antico, vicino a Firenze. Nella Gioconda è molto evidente la prospettiva aerea usata da Leonardo: gli oggetti che stanno sullo sfondo sono sfumati, azzurrati in distanza, proprio per evidenziare lo “spessore dell'aria” - invece gli oggetti vicini sono in basso, colorati e nitidi.

La parte posteriore della Gioconda è una tavola di legno, non una tela. Sulla parte davanti, ci sono almeno mezzo milione di screpolature.
La Gioconda ha perso i suoi colori originali perché, quando si trovava nelle Collezioni Reali francesi, vennero messi vari strati di vernice. Adesso i colori sono piuttosto scuri, si sono incupiti. Qualche tempo fa, nel laboratorio di restauro di Aramengo, vicino ad Asti, la famiglia Nicola ha effettuato una pulitura digitale su un'immagine della Gioconda mostrando come doveva essere coi suoi colori originali, quando Leonardo la dipinse.

Leonardo trascorse i suoi ultimi anni in Francia, presso la corte di Francesco I. Portò con sé pochi quadri, fra cui il San Giovanni Battista, a cui era molto affezionato (il modello del quadro era stato il suo allievo, nonché amante, Salai). Prima di morire, Leonardo regalò questi suoi quadri a Salai, e fu poi quest'ultimo a venderli alla corona francese (la Gioconda per 12mila ducati).

E' stato in occasione del famoso furto avvenuto nel 1911 che la Gioconda conobbe un periodo di particolare fama. Sul finire dell'800 era comunque considerata un sex symbol per il suo sguardo seduttivo, mentre nel '900 cominciò ad essere oggetto di ironia e prese in giro da parte di vari artisti.

Alberto Angela a Giovediscienza

Per tirare le fila del discorso, chi è la Gioconda esposta oggi al Louvre? Leonardo fece il quadro su commissione di Francesco del Giocondo, come è stato detto al principio.
Ma che fine ha fatto questo primo quadro? Non esiste prova che sia avvenuto il pagamento. Giocondo non vi fa alcun riferimento nel suo testamento. E nemmeno nessuno fa mai riferimento alla Gioconda durante la vita di Leonardo.
Giuliano de Medici (uno dei figli di Lorenzo il Magnifico) aveva un'amante che morì di parto. Giuliano riconobbe il figlio, ed è possibile che abbia chiesto a Leonardo di fare un ritratto della donna morta (Leonardo l'aveva conosciuta tempo prima). Questa donna potrebbe essere quella ritratta nella tela oggi conservata al Louvre. D'altronde vi è anche una frase del segretario di un cardinale in visita all'anziano Leonardo presso la corte francese: “Leonardo ci ha mostrato un ritratto di dama commissionatagli da Giuliano”.
L'ipotesi indicata dal libro – e sostenuta dallo studioso Pedretti – è quindi che al Louvre non ci sarebbe Monna Lisa (la moglie di Francesco del Giocondo), bensì Pacifica Brandani, l'amante di Giuliano de Medici (e quindi, se vogliamo, Monna Pacifica).

Alberto Angela va avanti per oltre un'ora e mezza con la sua esposizione. Finisce verso le 19.20.
Non mi sono distratta neanche per un attimo, e l'avrei ascoltato ancora a lungo.

martedì 29 novembre 2016

il giardino dei segreti

Kate Morton, Il giardino dei segreti
Nel 1913 Hugh, responsabile del porto australiano di Maryborough, trova sulla banchina una bambina di quattro anni abbandonata, scesa da una nave appena giunta dall'Inghilterra.
La bimba non ricorda il suo nome e non ha alcun segno identificativo, soltanto una piccola valigina bianca contenente qualche vestito e un libro di fiabe scritto da una certa Eliza Makepeace, l'Autrice.

Hugh e sua moglie non hanno figli (ci sono stati diversi aborti nel corso degli anni del loro matrimonio), per cui decidono di tenere con sé la bimba, che chiamano Nell, e di crescerla come propria.

A 21 anni Nell è fidanzata ed è totalmente inconsapevole delle proprie origini. Quando Hugh le confessa la verità, l'equilibrio e le certezze di Nell vanno in pezzi, ma i tempi difficili e la seconda guerra mondiale non le permettono di esplorare le sue vere radici sino al 1975, finché si reca a Londra.
Qui viene a conoscenza della storia di Rose, la malaticcia cugina di Eliza, figlia di Lord Linus Mountrachet e di sua moglie, Lady Adeline, di bassa estrazione sociale. L'amata sorella di Mountrachet, Georgiana, aveva gettato scandalo sulla propria famiglia fuggendo a Londra per vivere nella miseria insieme a un marinaio, che poi era improvvisamente scomparso.
Eliza Makepeace era la loro figlia, ospitata dallo zio Linus dopo la morte di Georgiana e riportata a Blackhurst, la malinconica tenuta dei Mountrachet in Cornovaglia.

Nel 1975 Blackhurst è divenuta un hotel, e Nell, parlando con vari abitanti del posto, riesce a risalire al fatto che i propri genitori fossero proprio Rose e suo marito, il pittore Nathaniel Walker - anche se ufficialmente la loro unica figlia risultava essere morta proprio a quattro anni.

La ricerca di Nell si interrompe a questo punto, ma dopo la sua morte, nel 2005, tocca a sua nipote Cassandra riprendere in mano le fila della storia, e recarsi in Cornovaglia per scoprire davvero la verità relativa alle origini di Nell - legate intimamente a un piccolo cottage comprato da sua nonna proprio nel 1975 - e mettere insieme tutte le tessere ancora mancanti del puzzle.

La struttura del romanzo è piuttosto intricata. Ci sono infiniti salti temporali avanti e indietro, uno per ciascun capitolo, e all'inizio ho trovato questa cosa molto pesante. Non che non avessi mai letto libri che adottavano questo espediente, ma qui la Morton lo ha davvero portato agli eccessi, secondo me. Ci sono stati diversi punti in cui avevo difficoltà a ricordarmi se una certa cosa era stata scoperta da Nell oppure da Cassandra, e in quale contesto era stata presentata per la prima volta.
Però capisco il motivo per cui l'autrice ha adottato questa modalità di narrazione, intersecando diversi piani e diverse voci.

L'utilizzo del simbolismo delle fiabe, e una finta pista che suggerisce la possibilità di un incesto creano una boscaglia di indizi fitta e impenetrabile proprio come il giardino cresciuto ed incolto di Eliza, e il labirinto di Blackhurst.
Un puzzle un po' torbido, ma la rivelazione finale coglie abbastanza di sorpresa, anche se verso i capitoli finali restava effettivamente l'unica strada che poteva essere stata percorsa dagli eventi. Posso dire che alla fine ci ero arrivata. Come avrebbe detto Sherlock Holmes, una volta eliminato l'impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev'essere la verità.

lunedì 28 novembre 2016

un po' di follia in primavera

Questo libro ha continuato a guardarmi dalla mensola per due mesi di fila, supplicandomi di leggerlo. E lo scorso weekend l'ho finalmente esaudito, finendolo in due giorni, vista la sua scarsa lunghezza.
Infatti, nonostante le 290 pagine dichiarate, l'interlinea e la dimensione del carattere sono molto larghe, rendendo di fatto quest'ultimo capitolo delle avventure di Alice Allevi molto più breve dei precedenti.

Aver visto la serie televisiva ovviamente ha interferito con la mia raffigurazione mentale dei personaggi. Soprattutto nelle prime pagine.
Poi però, visto che a parte Claudio il casting dei personaggi principal aveva del tutto cozzato contro le mie aspettative, me ne sono fortunatamente liberata (senza neanche troppa difficoltà) e sono tornata alle mie precedenti immagini mentali.

Alice, in particolare, ha di nuovo assunto il volto della stessa autrice. So bene che il personaggio non è biografico, né tantomeno l'alter ego della Gazzola, però io me la sono sempre immaginata come lei, sin dal principio, quando vidi la sua foto sul risvolto della terza di copertina. E da lettrice sono libera di farlo.

Ma torniamo al libro. Alice è agli sgoccioli del suo percorso di specializzazione e riceve anche una proposta di matrimonio da parte di Arthur, che nel frattempo aveva accettato un lavoro in parte stanziale a Roma. Peccato che nessuna data si concretizzi mai, e anzi ritorni la costante del distacco durante le sue trasferte mediorientali.
E una volta scoperto che il suo fidanzato si è sentito fortemente attratto verso una collega giordana, la rottura fra loro si fa inevitabile.

In tutta questa situazione Claudio è sempre lui, sempre lo stesso, lancia frecciatine ad Alice ricordandole quella famosa notte a Taormina, quanto lui ci pensi e quanto ci tenga a lei. Però quando la nonna di Alice ha un ictus, Arthur sta già andando via, ed è Claudio ad esserle vicino in ospedale.
Alice termina finalmente la specializzazione, discutendo la tesi. Apparentemente la sua esperienza in Istituto è finita. Però si prospettano due posti disponibili per un master l'anno successivo, ed è la stessa professoressa Wally a dire ad Alice che la vedrebbe adatta per la posizione. Anche Claudio la spinge in quella direzione.

Cosa succederà ora? La Gazzola ha annunciato sulla propria pagina Facebook di aver cominciato il libro nuovo, il titolo successivo a questo, quindi sappiamo che ce ne sarà ancora almeno uno. Credo - e non penso di sbagliare - che una delle borse di studio finirà ad Alice, e che quindi la ritroveremo ancora in Istituto, non più specializzanda e auspicabilmente un po' meno imbranata. Spero tanto che il capitolo Arthur sia definitivamente chiuso, e che magari quello di Claudio diventi possibile.

lunedì 21 novembre 2016

le novelle di diana gabaldon

Diana Gabaldon, Seven stones to stand or fall

Diana Gabaldon ha confermato che il nuovo libro della serie Outlander, intitolato "Go tell the bees that I am gone" NON uscirà nel corso del 2017.
La scrittrice trova strano che la gente chieda insistentemente ai propri autori quando faranno uscire i loro prossimi libri. Eh, forse perché in certi casi (ad esempio i suoi, e quelli di un suo amico, tale George R.R. Martin) passano letteralmente anni fra un volume e l'altro?
Mi sembra un'affermazione dettata almeno in parte da falsa modestia...

Ad ogni modo, la Gabaldon ha però annunciato che il prossimo 27 giugno uscirà una raccolta di novelle legate al mondo di Outlander, dal titolo "Seven stones to stand or fall".
Ovviamente l'uscita è relativa al mercato statunitense (non si parla di quello italiano).

La raccolta comprende 7 novelle, di cui 5 già pubblicate nel passato in varie antologie, e 2 inedite.
A proposito del nostro mercato, al momento mi sembra che soltanto "Virgins" sia stata pubblicata in  italiano (nella raccolta G. R. R. Martin - G. R. Dozois, "La ragazza nello specchio e nuove storie di donne pericolose", Mondadori, 2015)

Nell'ordine, le storie contenute nel nuovo volume sono le seguenti:

THE CUSTOM OF THE ARMY
"All things considered, it was probably the fault of the electric eel."
Nel quale l'incontro di Lord John Grey con la suddetta anguilla (per tacere di un belligerante poeta e del dottor John Hunter - un vero chirurgo, conosciuto per i suoi grandi contributi alla medicina, ma ai suoi tempi conosciuto in maniera più informale come il "ladro di corpi") lo porta ad essere mandato nel selvaggio Canada (piuttosto selvaggio all'epoca), dove raggiunge il generale James Wolfe, fa sesso su una spiaggia (anche se non col generale Wolfe), respinge attacchi degli Indiani (anche se non necessariamente di tutti gli Indiani...) e (fra le altre cose) scala una ripida scogliera durante la notte insieme a diversi Scottish Highlanders, per attaccare la cittadella di Quebec.

THE SPACE BETWEEN
“He still didn’t know why the frog hadn’t killed him.”
Nel quale il conte di St. Germain esplora i misteri dell'universo. Nel frattempo, un addolorato Michael Murray (figlio di mezzo di Jenny e Ian Murray) ritorna ai suoi affari parigini legati al vino, dopo la morte di suo padre (e la morte, avvenuta ancor prima, della sua giovane moglie). Durante il viaggio gli viene assegnata la custodia di Joan MacKimmie (sorella più giovane di Marsali, e figlia di Laoghaire), una giovane donna che sta recandosi in un convento francese, nella speranza di zittire le voci nella propria testa. E poi c'è Mastro Raymond...

A PLAGUE OF ZOMBIES
“There was a snake on the drawing-room table. A small snake, but still. Lord John Grey wondered whether to say anything about it.”
Nel quale Lord John viene mandato in Giamaica, con l'incarico di sedare una ribellione di schiavi. Serpenti e schiavi sono la parte minore, e quando il governatore dell'isola viene tornato morto nel proprio letto, parzialmente rosicchiato, Lord John si ritrova egli stesso il governatore militare provvisorio della Giamaica. Si ritrova anche in mezzo a qualcosa di molto più spaventoso che una rivolta di schiavi, qualcosa che deve affrontare da solo, a piedi nudi e senza armi, in una buia caverna dove lo sgocciolio dell'acqua nasconde pericolosi sussurri.

A LEAF ON THE WIND OF ALL HALLOWS
“It was two weeks yet to Hallowe’en, but the gremlins were already at work.”
Nel quale i folletti nel motore del suo Spitfire atterranno temporaneamente il capitano Jerry MacKenzie, ma le difficoltà meccaniche e le mitragliatrici tedesche sono nulla al confronto di ciò che lo aspetta in un cerchio di pietre del Northumbria. Questa è la storia dei genitori di Roger MacKenzie, Jerry e Dolly: una storia che Roger non ha mai saputo.

VIRGINS
“Ian Murray knew from the moment he saw his best friend’s face that something terrible had happened. The fact that he was seeing Jamie Fraser’s face at all was evidence enough of that, never mind the look of the man.”
Nel quale seguiamo le avventure del diciannovenne Jamie Fraser e del suo migliore amico Ian Murray, di vent'anni, come giovani mercenari nella Francia del 1740. Nessuno dei due giovanotti ha mai ucciso un uomo o portato a letto una donna, ed entrambi sono piuttosto preoccupati di finire all'inferno. Le possibilità di fare tutte e tre queste cose aumentano di molto quando vengono ingaggiati per scortare una giovane sposa ebrea e la preziosissima Torah che ne rappresenta la dote da Bordeaux a Parigi, e lungo la strada trovano molto di più di quello che avevano concordato.

E queste ultime due sono quelle inedite.

A FUGITIVE GREEN
“Minnie Rennie had secrets. Some were for sale and some were strictly her own. She touched the bosom of her dress and glanced toward the lattice-work door at the rear of the shop. Still closed, the blue curtains behind it drawn firmly shut.”
Nel quale una diciassettenne apprendista mercante di libri rari viene mandata da Parigi in Inghilterra da suo padre, per ottenere incunaboli e libri medievali di devozione - nonché qualsiasi tipo di segreto legato a intrighi politici o finanziari possa incontrare nel frattempo. Durante questi affari, però, Minnie incontra Harold Grey (il fratello più grande di Lord John), recentemente vedovo (e squilibrato in modo preoccupante) e Duca di Pardloe, e le cose finiscono fuori controllo.

BESIEGED
“ Lord John Gray dipped a finger gingerly into the little stone pot, withdrew it, glistening, and sniffed cautiously.
“Jesus!”
“Yes, me lord. That’s what I said.” His valet, Tom Byrd, face carefully averted, put the lid back on the pot. “Was you to rub yourself with _that_ stuff, you’d be drawing flies in their hundreds, same as if you were summat that was dead. _Long_ dead,” he added, and muffled the pot in a napkin for additional protection.
“Well, in justice,” Grey said dubiously, “I suppose the whale _is_ long dead.” He looked at the far wall of his office. There were a number of flies resting along the wainscoting, as usual, fat and black as currants against the white plaster. Sure enough, a couple of them had already risen into the air, circling lazily toward the pot of whale oil. “Where did you get that stuff?”

Nel quale Lord John, pregustando un rientro a casa in Inghilterra dopo il suo breve compito di governatore militare della Giamaica, si ritrova invece sulla strada per Cuba, dove la marina inglese sta predisponendo l'assedio all'Avana, e dove la duchessa madre di Parloe (e madre di John) è ospite (e potenziale ostaggio) del governatore Juan de Prado.

mercoledì 16 novembre 2016

tempo di addobbi

E' quasi tempo di Natale, e i negozi sono già tutti addobbati e decorati per le prossime festività, soprattutto quelli che vendono oggettistica a scopo di beneficenza, anche se spesso a prezzi da gioielleria...










lunedì 7 novembre 2016

tutta la luce che non vediamo

Anthony Doerr, Tutta la luce che non vediamo

È il 1934, a Parigi, quando a Marie-Laure, una bambina di sei anni con i capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, viene diagnosticata una malattia degenerativa: sarà cieca per il resto della vita. Ne ha dodici quando i nazisti occupano la città, costringendo lei e il padre a trovare rifugio tra le mura di Saint-Malo, nella casa vicino al mare del prozio. Attraverso le imposte azzurre sempre chiuse, perché così impone la guerra, le arriva fragorosa l'eco delle onde che sbattono contro i bastioni. Qui, Marie-Laure dovrà imparare a sopravvivere a un nuovo tipo di buio.

In quello stesso anno, in un orfanotrofio della Germania nazista vive Werner, un ragazzino con i capelli candidi come la neve e una curiosità esuberante per il mondo. Quando per caso mette le mani su una vecchia radio, scopre di avere un talento naturale per costruire e riparare questi strumenti di fondamentale importanza per le tattiche di guerra, un dono che si trasformerà nel suo lasciapassare per accedere all'accademia della Gioventù hitleriana, e poi partire in missione per localizzare i partigiani. Sempre più conscio del costo in vite umane del suo operato, Werner si addentra nel cuore del conflitto.

Due mesi dopo il D-Day che ha liberato la Francia, ma non ancora la cittadina fortificata di Saint-Malo, i destini opposti di Werner e Marie-Laure convergono e si sfiorano in una limpida bolla di luce.

Il libro è impostato a mo' di puzzle, con capitoli brevi e molto numerosi: sembra quasi di "leggere" i fotogrammi di una storia. A me questa particolarità è piaciuta molto, e ha contribuito fortemente a stimolare la lettura. Di solito scelgo di mettere in pausa la lettura alla fine di un capitolo, e visto che qui i capitoletti erano molto brevi, continuavo a dirmi massì, ne leggo ancora uno prima di chiudere, e andavo avanti così per delle mezzore...

C'è un'alternanza di piani temporali e un andare avanti e indietro cronologicamente per blocchi di capitoli. Onestamente io non ho avuto problemi e non ho trovato difficoltà ad orientarmi - è stato tutto chiaro - però ho visto da commenti sparsi che alcuni lettori si sono trovati un po' spiazzati (e allora vorrei vedere queste persone alle prese col libro che sto leggendo adesso: quello sì che salta avanti-indietro di decenni ad ogni capitolo).

La storia del diamante maledetto, che aveva reso immortale un principe ma aveva provocato la morte delle persone vicine a lui, si interseca con la storia di Marie-Laure e di suo padre, ed è altrettanto intrigante, ma alla fine si stempera un po' e perde di interesse.

Comunque un libro che mi è piaciuto veramente molto (e poi apprezzo particolarmente le ambientazioni in luoghi dove sono stata), anche se ho avuto un po' di delusione nella parte finale. Non che mi aspettassi un lieto fine, men che meno un destino comune per Marie-Laure e Werner, però ho avvertito un leggero senso di desolazione e rimpianto.
La morte di Werner mi è sembrata particolarmente inutile, dato che non è dipesa né da un atto eroico, né da un suo sacrificio per salvare altre persone. Una pura scelta narrativa, mentre invece avrebbe potuto salvarsi anche lui come il suo compagno della Wermacht.

venerdì 4 novembre 2016

il sacrificio di laika

Da piccola avevo un grande librone, con il dorso giallo, che si intitolava "Il grande libro del Sapere". Chi è stato bambino negli anni Settanta-Ottanta si ricorderà sicuramente di questa collana della Mondadori. Ho sfogliato e letto infinite volte le sue pagine, talmente tante da aver interiorizzato e memorizzato per sempre buona parte dei concetti e delle storie raccontate.

Ebbene, nella sezione dedicata all'astronomia e all'esplorazione dello spazio c'era una piccola immagine, a bordo pagina, che riproduceva una cagnetta in un modulo metallico. Era una raffigurazione disegnata della fotografia all'inizio di questo post: una cagnetta con la zampina appoggiata sul bordo. La didascalia diceva soltanto che Laika "divenne il primo essere vivente a viaggiare nello spazio". Da bambina non conoscevo qual era stata la vera storia di questa povera bestiola. Ne avrei letto soltanto più tardi. Allora pensavo che fossero riusciti a farla tornare a terra.

Però quella piccola immagine del muso della cagnetta è rimasta fissa nella mia memoria. E ogni volta che ripenso alla vicenda di Laika non posso fare a meno di rammaricarmi e dedicarle un pensiero di scusa per conto del mio genere, degli umani.

Sempre col ricordo di quell'immagine ho chiamato Laika la prima cagnetta che ho avuto, perché trovavo che un po' le assomigliasse, nell'espressione, e soprattutto in onore di quella prima, sfortunata bestiola.




Nel 2008 i russi hanno inaugurato un piccolo monumento a Laika, vicino all'istituto militare di Mosca dove venne preparato il viaggio di Laika nello spazio. Rappresenta un cane in piedi su un razzo.
Laika appare anche sul monumento ai conquistatori dello spazio, sempre a Mosca.


Laika non visse nello spazio, la cagnetta morì dopo il lancio
L’animale fu spedito in orbita sullo Sputnik nel ’57 - I russi dissero che aveva resistito 7 giorni: non era vero
di Vittorio Zucconi (fonte: La Repubblica del 29 ottobre 2012)
Il cane che rincorse le stelle avrebbe di molto preferito continuare a rincorrere gatti e ciclisti per le strade di Mosca, se avesse potuto decidere lei, ma Laika non era un cane qualsiasi. Era un soldato, una bandiera, un latrato di battaglia, un monumento che l’Urss voleva costruire a se stessa con il materiale della Guerra fredda, con i motori, i missili, le ambizioni e, soprattutto, con le bugie della propaganda. Laika, la bastardina arruolata dagli accalappiacani di Kruscev nei vicoli di Mosca per essere la prima creatura vivente spedita in orbita, non morì la morte indolore nello spazio dopo una settimana di orbite, che la propaganda ci aveva raccontato allora, ma una morte orrenda e struggente, inscatolata nel minuscolo Sputnik, poche ore dopo il lancio. Il suo cuore di cane fu schiantato dal panico e dalla solitudine incomprensibile.

Un’altra delle perenni menzogne del potere in Russia, sovietico e non soltanto sovietico, viene a galla dopo 45 anni, dalla confessione di uno degli scienziati di quel programma spaziale che, tra il primo bip dello Sputnik e il viaggio di Gagarin attorno alla Terra, doveva essere la dimostrazione dei trionfi Socialisti sul nemico Capitalista. La prova della profezia di Nikita Kruscev all’Occidente, “in dieci anni vi seppelliremo”.

Laika, insieme con Mushka e Albina, due altri cagnetti presi a caso tra i bastardini nelle vie della capitale, era stata scelta per la sua docilità, per la sua resistenza alle prove d’accelerazione nella centrifuga della “Città delle Stelle”, la Houston alle porte di Mosca e, dannazione dei piccoli, per le sue dimensioni contenute. Non c’era molto spazio per ospitare un cane dentro lo Sputnik 2 dal peso totale di 108 chili, che i vettori sovietici erano in grado di sparare in orbita in quel novembre del 1957. Ma per piccina e mansueta che fosse, Laika era pur sempre un cane e ci volle tempo per adattarla a quel viaggio.

Con le sue compagne fu messa nel frullatore della centrifuga che le spingeva il cuore fino a tre volte il ritmo normale delle pulsazioni cardiache, nella paura e nella fatica di pompare il sangue nel corpo schiacciato dall’accelerazione gravitazionale. Aveva, dice ora lo scienziato russo, una tendenza a soffrire di panico, perché il cuore impiegava poi il triplo di tempo rispetto alle sue compagne, prima di tornare a velocità normale.

Laika e le sue compagne furono costrette a vivere in gabbiette e contenitori sempre più piccoli e strette da catenelle sempre più strette, per periodi successivi di 3 settimane e a nutrirsi solo di gelatine, la pappa che sarebbe stato messo a bordo, perché lo potessero, poco alla volta, con parsimonia, leccare fino all’esaurimento e dunque alla morte.

Alla fine dell’addestramento, se così possiamo chiamare quella tortura, la vediamo nelle foto d’epoca, che spunta con il muso scuro e gli occhi giustamente preoccupati, da una sorta di tubo di dentrificio nero, l’ogiva nella quale sarebbe stata sparata dalla base di Baikonur, strettamente incatenata, per impedirle di rivoltarsi e di muoversi dentro il tubo.

Mushka, oltre che piccola, era, per sua ulteriore sfortuna, anche la più intelligente. Era servita per collaudare i rudimentali strumenti di bordo, un ventilatore automatico che avrebbe dovuto raffreddare l’abitacolo quando, nei momenti di esposizione al sole durante le orbite la temperatura fosse salita oltre i 20 gradi.
Albina era stata sparata due volte con razzi, ma recuperata con paracadute dell’ogiva, per collaudare la resistenza al lancio. Ma Laika pescò la paglia corta. Fu scelta per il glorioso evento. E fu lanciata. Senza sapere che per lei non era stato previsto nessun rientro trionfale. Che sarebbe comunque morta girando attorno alla Terra.
Il dottor Dimitri Malashenkov, lo specialista che la seguì, ha raccontato ieri a un congresso di medicina spaziale a Houston, le ultime ore di Laika. L’elettrocardiografia seguita via radio segnò un aumento parossistico delle pulsazioni quando i motori s’accesero e il missile cominciò a vibrare sollevandosi dalla piazzola, qualcosa che la cagnetta non aveva mai provato prima. Raggiunta la velocità orbitale, il ventilatore, secondo i leggendari standard del controllo di qualità sovietica, naturalmente non funzionò e la temperatura nella trappola spaziale cominciò a oscillare tra il caldo e il freddo estremi.
Il suo cuore di cane prese a battere irregolarmente, fibrillando quando l’assenza di peso rallentò di colpo le pulsazioni e alla quarta orbita, dopo 5 ore di tormento, il tracciato divenne misericordiosamente piatto. Forse fu la temperatura a ucciderla, o l’umidità che si era accumulata nel suo ansimare dentro quello spazio, o l’anidride carbonica che i filtri nella capsula avrebbero dovuto ripulire, ma che, probabilmente, non funzionarono a dovere. Il dottore non è sicuro.

Ma chiunque conosca un cane e abbia visto gli occhi di Laika mentre la insaccano dentro la sua gabbia, sa di che cosa è morta quella cagnetta, è morta di paura e di solitudine. Di stress, se si preferisce un’espressione più asettica. Sognando i vicoli di Mosca, il branco dei randagi e i gatti che non avrebbe più rincorso, la mano di quegli uomini ai quali si era sicuramente affezionata, senza sapere quello che loro stavano preparando per lei. Il funerale di Laika fu lungo. Andò avanti per 6 mesi e 2.570 orbite, mentre il Cremlino mentiva sulla sopravvivenza di Laika nello spazio indicata in “oltre quattro giorni” e l’America si rodeva nella sua goffa rincorsa con missili che esplodevano dopo il lancio e scimpanzé africani che stava addestrando per inseguire i cani russi.
Fu cremata l’8 aprile del 1958, quando lo Sputnik-2 perse velocità e rientrò nell’atmosfera, consumandosi in un ultimo, piccolo falò delle vanità ideologiche e della crudeltà umana.

Tre anni dopo, il 12 aprile del ’61, un essere umano dal coraggio ultraterreno, Yuri Gagarin la seguì, sapendo che avrebbe potuto fare la fine della cagnetta che l’aveva preceduto e che era stata sacrificata per lui, da un regime che trattava gli uomini come cani e dunque i cani come gli uomini. Troppo tardi per fare compagnia a Laika e portarla a passeggio tra le stelle.

mercoledì 19 ottobre 2016

toulouse-lautrec in mostra a torino

Toulouse-Lautrec. La Belle Époque
Palazzo Chiablese, Torino
 22 ottobre 2016 - 5 marzo 2017

Dopo mesi di notizie discordanti a proposito di annullamento definitivo e/o di rinvii vari, si apre finalmente in città questa benedetta mostra, annunciata mesi fa e sempre rimandata.
Con circa 170 opere, tutte provenienti dalla collezione dell’Herakleidon Museum di Atene, si apre a Palazzo Chiablese una grande retrospettiva dedicata a Toulouse-Lautrec, l’aristocratico bohémien considerato il più grande creatore di manifesti e stampe tra il XIX e XX secolo.

Il percorso illustra l’arte eccentrica e la ricercata poetica anticonformista e provocatoria - tra le più innovative tra Ottocento e Novecento - di uno degli artisti oggi più apprezzati e ammirati; un’anima da "artista tormentato" fin dall’infanzia e non adeguatamente "riconosciuto", seppur pervaso da un fortissimo slancio ottimista e dalla consapevolezza della bellezza della vita. Una bellezza semplice, dai contorni volutamente sfumati e da vivere in momenti dissoluti, dai colori forti e spregiudicati e priva di abbellimenti, nei disegni come nelle tinte. Nessuno, dopo di lui, è stato in grado di rendere così "perfetto" il volto dell’imperfezione. È questo il suo stile.

 In mostra litografie a colori (come Jane Avril, 1893), manifesti pubblicitari (come La passeggera della cabina 54 del 1895 e Aristide Bruant nel suo cabaret del 1893), disegni a matita e a penna, grafiche promozionali e illustrazioni per giornali (come in La Revue blanche del 1895) diventati emblema di un’epoca indissolubilmente legata alle immagini di Toulouse-Lautrec.


martedì 18 ottobre 2016

l'allieva: la serie tv

La serie televisiva basata sui romanzi de "L'allieva" di Alessia Gazzola non è ancora finita - mancano ancora due settimane - ma ormai io un'idea me la sono fatta. E purtroppo sono abbastanza delusa.

La serie si ispira solo ai primi tre volumi (Sindrome da cuore in sospeso, L'allieva, Un segreto non è per sempre), e non a tutti i libri finora pubblicati. Vedendo le puntate ci si accorge però che i casi di omicidio raccontati sono ovviamente di più (1 puntata lunga da due ore + altre 10 da un'ora, trasmesse accorpate), e sono stati scritti appositamente per la televisione.
La Gazzola ha supervisionato le sceneggiature, in linea teorica, ma non le ha comunque scritte lei.
Ma il problema con la serie, per quanto mi concerne, non è quello.


Che cosa non mi sta piacendo?

- Innanzitutto la protagonista principale. Alessandra Mastronardi non mi piace nel ruolo, non è davvero la "mia" Alice dei libri. Non mi piace fisicamente, non mi piacciono il viso, i capelli, il modo in cui si veste (o la vestono). Le scarpe che porta non sono quelle che indosserebbe l'Alice dei libri.
E non mi piace il suo modo di recitare, il suo sguardo perso, la sua voce e nemmeno i suoi silenzi quando si trova interpellata dalla Wally o dal Supremo.
Boccio sia l'attrice che la interpreta, sia il modo in cui hanno sceneggiato Alice Allevi. Mentre l'Alice dei libri è imbranata ma simpatica (e ti trovi a solidarizzare con lei), sto trovando quella della tv quasi odiosa, talmente viene dipinta come  stordita, come se vivesse in continuazione su una nuvoletta rosa. Sembra una vispa Teresa in un istituto di medicina legale: niente di più fuori posto!

- Poi Dario Aita nel ruolo di Arthur è una roba senza senso, completamente diverso rispetto a quello dipinto nelle pagine della Gazzola. Siamo lontani anni luce, ma proprio in un'altra galassia...
Dove sono la sua britishness, il suo coraggio e il suo idealismo?
Dov'è il suo accento inglese, dov'è il suo "Elis"???
Ricordo benissimo che leggendo i primi libri, anch'io oscillavo continuamente fra team Claudio e team Arthur (solo più avanti avrei fatto una scelta), perché come Alice non riuscivo a decidere quale preferivo. Questo avveniva perché anche l'Arthur narrato dalla Gazzola era affascinante e pieno di qualità, invece qui nella serie non mi è mai passato per la mente di poterlo nemmeno considerare, questo Arthur.
Già quando uscirono le notizie sul casting, oltre un anno fa, ero delusissima per la scelta di Aita, e purtroppo non mi sono ricreduta nemmeno dopo averlo visto al lavoro. Ma evidentemente la famiglia Aita è andata per la maggiore, anche perché un altro Aita (il fratello Emanuele) interpreta il ruolo di Paolone.

- Questo è un dettaglio, ma va ad aggiungersi al resto. Anche la nonna non è lei (ovvero non è quella che mi sono sempre raffigurata mentalmente), non con quei capelli rossi e quella corporatura robusta. Per me Marzia Ubaldi rimarrà sempre la balia di Elisa di Rivombrosa; potrà fare qualsiasi ruolo, ma io continuerò a vedermela sempre con quegli abiti di scena.

- Anche l'ispettore mi trasmette un'impressione molto diversa dai libri. Sino ad ora sembra sempre che accolga i suggerimenti investigativi di Alice come se le facesse un grande favore, sfottendola anche un po'... Nei libri invece mi sembrava che fosse molto più cordiale, gentile e disponibile nei suoi confronti.

C'è qualcosa di cui invece sono soddisfatta?

- Claudio è l'unico su cui non ho obiezioni. Mi piace, lo adoro, e Lino Guanciale lo impersona come me l'ero sempre raffigurato. Un CC perfetto, a mio parere.
(Ah, sì, se non l'avevate capito: alla fine, nel corso della lettura io ho scelto il team Claudio.)


lunedì 26 settembre 2016

i tacchi di kate

Ma ditemi come fa la duchessa di Cambridge a portare sempre dei vertiginosi tacchi a spillo durante le uscite pubbliche, e nel muoversi (apparentemente) in maniera agevole e senza difficoltà? Qui è durante la visita ufficiale in Canada di questi giorni, eppure ha dovuto scendere dalla scaletta metallica dell'idrovolante piena di buchini, e transitare su quella passerella che non mi dà l'idea di massima stabilità...

Qui scendendo di nuovo dalla scala - ben più lunga - dell'aereo di linea, ma addirittura con la principessina Charlotte in braccio e il principe George per mano dall'altra parte. Altro che le discese di Vanda Osiris...

E qui durante una visita di tutta la famigliola a un elicottero della Royal Air Force.

Chapeau. Io porto normalmente scarpe col tacco molto più basso, per una semplice questione di comodità e per non rovinarmi volontariamente i piedi.
Ma tanto di cappello a Kate, che riesce a muoversi su quei trampoli senza inciampare, e dando l'impressione di non star facendo alcuna fatica, in ogni condizione.



Non posso fare a meno di postare anche quest'ultima foto, vista l'eccezionalità delle scarpe che qui porta Kate. Si tratta di un bel paio di stivaloni col tacco basso. Per una volta :-)
Ma in questo caso si trattava di una visita ufficiale in India/Bhutan dell'aprile 2016, e i due principi stavano visitando dei posti in alta montagna. I tacchi sarebbero stati del tutto fuori contesto, nonché un biglietto sicuro per rompersi una gamba (o peggio).

mercoledì 21 settembre 2016

brotherhood in death

Dennis, il marito della dottoressa Mira, si trova di fronte a due spiacevoli sorprese. Innanzitutto viene a sapere che suo cugino Edward sta incontrando a sua insaputa un agente immobiliare per vendere la casa ereditata dal loro vecchio nonno nel West Village, nonostante la promessa che era stata fatta di tenere l'immobile in famiglia.
Poi, quando l'uomo si reca alla casa per discutere di questa cosa con Edward, lo vede legato ad una sedia e viene subito ferito in testa da un oggetto contundente, perdendo conoscenza.

Ma per fortuna la dottoressa Charlotte Mira, profiler della polizia di New York, è una buona amica del tenente Eve Dallas. Dennis spiega a Eve che l'ultima cosa che ha visto è stata Edward legato ad una sedia, ammaccato e sanguinante. Una volta ripresosi dalla botta in testa, il cugino era sparito. E purtroppo non sono rimasti molti indizi: il sangue è stato ripulito e le registrazioni della videosorveglianza sono state portate via.

Edward Mira è stato un avvocato, un giudice ed ex-senatore, e come tale si è relazionato con persone importanti, ha incrociato la propria strada con molti criminali, e si è fatto molti nemici. Grazie all'aiuto del distintivo (e di suo marito, il miliardario Roarke) il tenente Eve Dallas intende far luce sugli affari sporchi del senatore Mira, e sui motivi oscuri che sembrano star dietro alla scomparsa dell'uomo. Purtroppo ben presto il cadavere del senatore viene ritrovato impiccato e seviziato, proprio nella casa vuota dalla quale era sparito. Evidentemente l'assassino è riuscito a passare sotto al naso della polizia.

E proprio quando nessuno se lo aspetta, un altro uomo importante, anch'egli vecchio amico del senatore Mira, viene trovato assassinato con le stesse modalità.
Già all'inizio delle indagini, Eve sospetta che la causa sia da ricercare nel passato dei due, nella cerchia delle amicizie che i due avevano stretto a partire dagli anni dell'università a Yale. Ed Eve sospetta anche che, viste le modalità delle uccisioni, il movente sia da ricercarsi nella vendetta di stampo sessuale, probabilmente da parte di una o più donne.
Emerge così una squallida e triste vicenda iniziata a Yale quasi cinquant'anni prima, dove una cerchia di sei amici, capitanata da Edward Mira, abusava di giovani donne dopo averle drogate, cancellandone poi la memoria. I brutali omicidi sarebbero quindi semplicemente le vendette da parte di alcune vittime, riunitesi in un gruppo. E i due uomini già uccisi non sono gli unici che facevano parte della cerchia di Yale...

Allora: questo nuovo episodio delle avventure di Eve Dallas (è il 43esimo, ormai mi perdo...) mi è piaciuto più degli ultimi. Se non altro, il dilemma riguardante il quanto fosse giusto che le vittime si facessero giustizia da sole, per le traumatiche violenze a cui erano state esposte, non è di poco conto. E' naturale essere portati a solidarizzare più con le donne coinvolte - in questo caso le assassine - che non con gli uomini uccisi - vittime in questo caso, ma in passato colpevoli di ripetuti atti di cruda violenza.

E anche Eve ne è coinvolta, dato che anche nel suo passato c'era una storia di questo tipo. Addirittura poi parla apertamente di ciò che le è successo, prima con Peabody e poi con Dennis Mira, una cosa che la Eve dei primi libri non avrebbe mai fatto. Mai e poi mai! Che il nostro tenente stia maturando? Durante il suo racconto a Peabody accenna a quale sia stata per lei l'importanza di darsi uno scopo nella vita grazie alla carriera in polizia, di quanto sia stato importante ottenere i gradi di tenente, e di quanto saranno importanti quelli di capitano, suo prossimo obiettivo.
Peccato però che soltanto pochi libri fa (equivalenti a nemmeno 2-3 mesi, nello svolgersi della narrazione) sia stata proprio lei, Eve, a rifiutare il passaggio al grado superiore, che il comandante Whitney le aveva detto essere pronto. Forse la Robb non se n'è più ricordata o forse non è stata attenta a ciò che ha scritto.

Già dai primi momenti dell'investigazione Eve ha l'intuizione che la porta ad individuare i nomi delle colpevoli (anche se non ancora di tutte quante le complici), per cui la dinamica dell'indagine non si muove alla ricerca dei colpevoli, bensì diviene una lotta contro il tempo per evitare che anche gli altri uomini vengano uccisi, e per cercare di incastrare le donne del gruppo.

martedì 20 settembre 2016

l'ultima carezza

L'ultima carezza
di Catherine Guillebaud
Elliot Edizioni

Il suo nome è Mastic des Feux Mignons. Da parte di padre discende da Ian du Bec-Etoile e, da parte di madre, da Ceenzo Vitoune de la Mutinerie. È un setter inglese, nato il 17 aprile del 1994. Secondo la tradizione di famiglia, Lei lo ha immediatamente ribattezzato non appena arrivato nella sua nuova casa e così è diventato Joyce, in ricordo di chi sappiamo, patronimico scelto anni prima per il suo predecessore, irlandese anche lui. Tra Lei e lui è subito nata una storia d’amore.
Una storia vissuta attraverso la casa, l’alternarsi delle stagioni, dei piccoli gesti ripetuti all’infinito, che poco a poco tessono, nel susseguirsi dei giorni, la trama di una famiglia e di una vita, tutto raccontato attraverso lo sguardo di un cane pieno di gioia, sentimento, intelligenza e ironia. Scritto con eleganza e delicatezza di stile, è l’omaggio tenero, pieno di profonda empatia nei confronti degli animali che ci osservano e ci amano senza riserve.


E' un racconto delicato, narrato in prima persona (!) da Joyce, un ormai vecchio setter inglese di quattordici anni, che - arrivato alla fine dei propri giorni - narra della sua vita come Cane di casa.
La sua famiglia vive in una casa da favola, immersa in un grande parco, non troppo lontano da Parigi. Joyce non è l'unico animale a condividere l'esistenza con Lei, lui e le due sorelle, ormai cresciute: nel corso degli anni vi sono stati gatti - uno dei quali, l'altrettanto anziano Opium, è tuttora suo migliore amico - cagne, e cavalli. Una vita da gentiluomo (pardon, gentil-cane) di campagna, insomma, nella quale c'è stato un periodo difficile causato dalle pecore della fattoria vicina, ma che per il resto è stata sempre felice.
Saggio e divertente, Joyce rivela tutto l'amore, la dedizione e la fedeltà che ha sempre portato ai suoi padroni (soprattutto a Lei).

Chi ha posseduto un cane sarà toccato da questa storia, e vi troverà molte scene vere e vissute. Non ci sono grandi avvenimenti, ma la semplice quotidianità dell'esistenza con un animale domestico, vista però con gli occhi del pelosone.
 

giovedì 15 settembre 2016

il museo ebraico di berlino

Una delle architetture di Berlino più sorprendenti create negli anni Duemila è l'edificio che ospita lo Judisches Museum (Museo Ebraico), nel quartiere di Kreuzberg, aperto nel 2001.

L'edificio è stato progettato dall'architetto polacco Daniel Libeskind. L'intera struttura è rivestita da una facciata di metallo lucente, con tutta una serie di sottili fessure a zig-zag che assomigliano a ferite, a cicatrici aperte.



L'idea è quella di rappresentare, mediante la costruzione stessa, uno spazio disturbato e scomodo che rispecchi la difficile storia della cultura e della società ebraica in Germania nel corso dei secoli. Gli spazi vuoti in diverse parti dell'edificio si estendono verticalmente attraverso l'intero museo, e nelle intenzioni dell'architetto vogliono essere metafora dell'assenza degli ebrei dalla società tedesca.

Non c'è un ingresso principale, e difatti l'accesso al museo avviene dalla facciata barocca del vecchio edificio adiacente.



Una volta passati i controlli dei metal detector si trova la biglietteria, poi mediante una scala si scende in un corridoio sotterraneo che raggiunge l'inizio dell'esposizione permanente, dove si sviluppano i tre assi principali.

Prima di cominciare il giro, è utile soffermarsi negli spazi del <strong>Learning Center</strong>, dove si possono guardare filmati introduttivi, oppure usufruire di postazioni multimediali (in tedesco e in inglese) che raccontano per sommi capi la storia degli ebrei, non solo in Germania, oppure determinati concetti, ad esempio cosa significa "kosher".

Nel piano sotterraneo, l'asse dell'Olocausto e l'asse dell'Esilio espongono oggetti legati alle persecuzioni degli ebrei durante il nazismo. In fondo al primo corridoio c'è una porta che permette di entrare nella Torre dell'Olocausto, uno spazio chiuso, vuoto e buio che si sviluppa verso l'alto.

In fondo al corridoio dell'Esilio si trova invece uno spazio esterno, il Giardino dell'Esilio, dove una serie di 49 alti parallelepipedi di cemento, con alberi piantati in cima, sono disposti in maniera particolare rispetto al dislivello del terreno, tanto da creare una forte sensazione di disagio in chi ci cammina in mezzo. E' successo sia a me, sia alle persone che erano con me, ma è un effetto voluto.



Il terzo asse, quello della Continuità, porta invece i visitatori verso la scala che li conduce al secondo piano, da dove comincia la visita.

E' però d'obbligo una tappa intermedia al piano terra, verso il cosiddetto Vuoto della Memoria. Si tratta di uno stretto spazio verticale che si sviluppa verso l'alto, sul cui pavimento ci sono oltre 10mila maschere rotonde di ferro, sagomate a forma di volto, su cui i visitatori camminano.

E' un'installazione di un artista israeliano, Menashe Kadishman, realizzata apposta per questo luogo, dedicata a tutte le vittime innocenti della guerra e della violenza, e prende il nome di "Shalekhet" (Foglie cadute). Il rumore dei passi dei visitatori sulle maschere di ferro è impressionante, e si sente già dalle sale attigue. Un rumore molto simile a quello dei piatti lavati e riposti nella cucina di un ristorante, ma moltiplicato per grandi numeri.



Si ritorna indietro e si risale sino al secondo piano, dove ha inizio l'esposizione permanente. Si viene subito accolti da un colorato e poetico albero, tra le cui foglie i visitatori sono invitati ad appendere un bigliettino a forma di melagrana sul quale scrivere un desiderio, un augurio per il mondo. L'idea mi è sembrata molto bella.



La mostra comincia poi dalla storia delle prime comunità ebraiche lungo il Reno, passando attraverso la vita delle donne ebree, gli oggetti tradizionali e i rituali, i cambiamenti e gli adattamenti agli stili di vita delle varie epoche.



Si scende al primo piano, con i cimeli delle ricche famiglie borghesi di mercanti, imprenditori e scienziati, le testimonianze dell'attiva e produttiva partecipazione ebraica alla vita tedesca dell'Ottocento. Per arrivare agli anni del Nazismo e delle persecuzioni, e giungere infine all'oggi, momento in cui la comunità ebraica tedesca è nuovamente rappresentata da circa 100mila persone.



Una visita a questo museo è veramente istruttiva, nonché toccante, viste le tematiche.

Noi abbiamo potuto dedicarci soltanto un paio d'ore (salvo poi essere bloccati nell'ampio cortile coperto del caffé interno per almeno una buona mezzora da un super temporale), ma, se avete maggior tempo a disposizione, vi consiglio di passarci almeno una mezza giornata. Avrete tempo di ascoltare e leggere le varie spiegazioni e didascalie con maggior calma, e sicuramente uscirete da lì con una maggiore consapevolezza.